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Aspettandoti invano

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Ovvero: il segreto Marcus

Un mano gelida improvvisamente si appoggiò sulle sue spalle ed un fastidioso brivido freddo lo riscosse spiacevolmente dal torpore che lo aveva preso e gli aveva fatto chiudere gli occhi. Si guardò intorno come se non sapesse dove fosse e cosa stesse facendo poi alzò lo sguardo verso il grande orologio appeso al muro di fronte a lui.

La notte stava irrimediabilmente terminando e non c'era più nulla da aspettare. Rimise in ordine i fogli sparsi sul tavolo, con la schiena spinse indietro la sedia e si alzò, senza avere idea di quello che avrebbe dovuto fare. Aspettare ancora non aveva senso, anche questa volta Claire non avrebbe chiamato. Ma perché si ostinava ad attendere che accadesse ciò che sapeva bene non avere alcuna probabilità di succedere?

Come la notte precedente prese i fogli che aveva lasciato sul tavolo, rilesse qualche riga e scosse il capo: se almeno questo logorio fosse utile ispirazione per scrivere qualcosa di decente. Buttò tutto nel cestino della carta e andò in camera da letto. Avrebbe cercato di riscaldarsi sotto le coperte, sonno non ne aveva. Si avviluppò nel piumone gelato e rimase immobile, aspettando il mattino e un po' di calore.

Una mano prese dei fogli dal cestino e li infilò nella tasca di un cappotto nero, poi mano e cappotto uscirono silenziosamente dalla stanza e andarono nello studio adiacente. AN accese un computer portatile, iniziò ad estrarre i fogli dalla tasca, ad uno ad uno, e ne diede in pasto il contenuto alla impassibile memoria di silicio.

Mi piace rimanere sul terrazzo, vedo le montagne. Nonostante siano lontane. Imporporate come cardinali dal sole calante vibrano nell'atmosfera umida nelle sere di primavera. La mattina scintillano nell'aria tersa come sciabole e le cime innevate sono il ghigno di una belva feroce. Posso immaginare i percorsi che mi portano laggiù, seguendo le linee tracciate dai pioppi che svaniscono ai loro piedi o lungo il tappeto verde della immobile pianura che si srotola fino ai prati che stanno dall'altra parte della strada che separa la mia casa dal mondo. Le sto a guardare mentre la neve si ritira, il verde dell'erba sbiadisce nel giallo pallido del granoturco e le tiepide carezze del sole diventano ceffoni ardenti: allora aspetto la notte per sedermi al cospetto delle Alpi marziane, quando la luna arrossisce agli ammiccamenti di un sole appena nascosto sotto l'orizzonte che la illumina con rasoiate di luce. Appaiono repentine livide montagne venusiane, quando l'autunno scolora il mondo e distende le sue muffe sulla nuda roccia dei pendii non ancora innevati: eccomi ancora qui a riconsiderare il mistero degli oscuri giganti, guardiani del cielo che mostra lussurioso i suoi infiniti gioielli. Monti lunari sotto la luna argentea ghiacciata dai venti gelidi dell'inverno.

Un altro anno si spegne e poi ricomincia daccapo, come prima.

E dentro questo cerchio maggiore gira la giostra mensile delle fasi lunari. Notti nere, che lentamente si colorano di eburnea luce opaca, e un paesaggio selenitico specchio di quel mondo lontano che di nuovo si mostra per una sera soltanto, per poi nascondersi pudico dietro l'antico geoide.

E ancora più all'interno, come in una mistica matriosca, i giorni che nascono e che muoiono come falene; nemmeno la noia interrompe la marcia suicida di questa sciocca trottola, che volteggiando e oscillando avanza imperterrita seguendo ciecamente l'invisibile traccia che sempre la riporta là da dove era venuta.

Eppure noi organi viventi, come se appartenessimo ad una dimensione ulteriore, ci muoviamo perpendicolari fendendo il piano circolare, attraversandolo seguendo un diabolico percorso sulla retta che non consente ritorni e nuovi inizi, e conduce oltre l'orizzonte nel nulla assoluto. Solo di tanto in tanto ci è concessa una deviazione da questa traccia piatta, in quei rari momenti in cui la vita sembra avere un senso: l'infanzia, la follia, le passioni.

E poi millenni di illusioni immaginando fili invisibili che tutto muovono, comandati da un demiurgo i cui fini non sono comprensibili ad esseri infinitesimali. E meno di cent'anni, un soffio per l'orologio del mondo, per alzare la testa e accorgersi che siamo soli e che l'unica divinità è la matematica che regola con la sua logica la natura tutta e si manifesta nella vera trinità, quella delle forze fondamentali dell'universo.

Da quando sono relegato in questa torre d'avorio, in questa cella dorata, in questa navicella spaziale sperduta nello spazio cosmico, l'unico ponte rimasto tra me e il mondo sono queste tracce di inchiostro con le quali mi illudo di avere ancora una connessione con ciò che avevo sognato. Il segnale bip bip agonizzante inviato nel vuoto pneumatico alla vana ricerca di una antenna che lo riceva.

Finito il lavoro di trascrizione AN andò in cucina, preparò un caffè osservato dal gatto che immobile seguiva ogni suo movimento, poi ritornò nello studio.

Sorseggiando il caffè bollente si trovò a ripensare come era cominciata questa strana avventura. Sbirciò fuori dalla finestra il muro di nebbia che rifletteva la fioca luce dell'alba e si rimise di fronte al monitor; aprì un nuovo documento ed iniziò a commentare.

Il racconto di AC

Lo conosco da parecchi anni. Per meglio dire, credevo di conoscerlo. Poi, una notte in cui l'insonnia mi negava la dolcezza del sonno, mi capitò di scoprire che la notte non dormiva, scriveva. Scriveva, guardava spesso l'orologio e controllava la presenza di messaggi sul telefono cellulare ed io mi domandavo cosa stesse aspettando. Alla mattina trovavo i manoscritti nel cestino della carta e così pensai di cercare una risposta. Presi l'abitudine di attendere il momento in cui tornava a dormire e di salvare la sua produzione notturna.

Devo dire che la fantasia non gli manca: mi ero accorto della sua abitudine di perdersi davanti al pianoro che si distende di fronte alle finestre di casa fino alle lontane montagne azzurrognole che delimitano l'orizzonte; ma sul terrazzo no, là non lo vedevo mai. Questa ossessione del tempo o, per meglio dire, del ritmo circolare della natura contrapposto alla nostra esistenza che sembra muoversi di moto uniforme, come dire, con momento angolare pari a zero, la riconosco. Non riconosco invece il vezzo barocco della descrizione arzigogolata, prolissa e arricchita di particolari fantasiosi se non fantastici.

Il primo foglio che trovai aveva un titolo scritto in stampatello, 'Un uomo pleonastico', titolo che mi incuriosì principalmente perché non avrei mai pensato che avrebbe potuto definire sé stesso con quell'aggettivo.

Dopo due anni di minuziosa ricostruzione potrei asserire che la produzione letteraria di Marcus si può suddividere in quattro periodi.

Il periodo oscuro, di cui fui spettatore dell'epilogo grazie al primo ritrovamento accennato in precedenza:

  • Un uomo pleonastico
    La storia di M, sempre in ritardo o in anticipo con la vita, tanto da non riuscire mai ad incontrarla davvero. M è cosciente di questo perfido karma e cerca di combatterlo producendosi in una cornucopia di iniziative che appaiono sempre destinate ad un sicuro successo. Ma sempre un evento inaspettato si infila sibillino nelle ruote del meccanismo, inceppandolo inesorabilmente.
    M non riuscirà a produrre nulla di buono né per sé né per coloro che entreranno nella sua vita (e che inevitabilmente usciranno in circostanze drammatiche) e cercherà sollievo in una fuga palingenetica, nella speranza di trovare la quadratura tra il luogo, il tempo e le sue aspirazioni. Ma si ritroverà dopo anni al punto di partenza, solo e svuotato. Si chiuderà quindi in una volontaria clausura concludendo di essere una persona totalmente inutile e trasparente al mondo.
    Troverà una morte terribile imprigionato nel divano-letto che, a causa di un cedimento del sistema pneumatico di apertura, si chiude violentemente imprigionandolo nel divano-bara.

Il periodo della lievitazione, ovvero una specie di breve epifania gioiosa la cui causa pare risiedere in un misterioso personaggio chiamato Claire:

  • Il bar chiamato Paradiso
    Completamente ambientato in un bar surreale di una cittadina non meglio identificata, nel quale il protagonista trova una parvenza di felicità e dal quale entra ed esce al ritmo soffice di “Heaven”, una canzone dei Talking Heads che si intreccia nella dinamica del racconto fino ad avvilupparlo completamente. Tra personaggi divertenti, parodistici, miseri avventori e filosofi in pensione, anziani dall'umanità tracimante, allegri pensionati ed odiosi bulletti da bar, spicca lei, Claire.
    Appare per la prima volta, seminascosta dal bancone del bar.

  • Una rosa sul parabrezza
    Una storia d'amore incompiuta, non si sa se per mancanza di ispirazione o per voluta rappresentazione autobiografica. Come un romanzo rosa si apre con tutti i temi canonici dell'innamoramento, fino al fatidico fiore che dovrebbe rappresentare l'inizio della relazione tra i due protagonisti. Ma a questo punto la storia rallenta, sempre di più, tendendo verso la sua ragionevole conclusione asintoticamente senza mai arrivarci e chiudendosi in una spirale sempre più stretta fino a che termina senza che il lettore nemmeno se ne accorga. Quello che rimane è un quesito senza risposta. E poi?

La disperazione definitiva, cioè il lungo periodo del crollo emotivo e della autocommiserazione schizoide:

  • (Sono io) la cosa brutta
    Se c'è una cosa in cui l'autore è particolarmente abile è quella di descrivere la sua inadeguatezza e la sua bassezza. Fino all'amara conclusione: “... sono io la cosa brutta”.
    Una introspezione professionale, fredda e asciutta, dove l'autoanalisi provoca una sorta di sdoppiamento producendo un M psicologo che affronta e descrive la malattia mentale di M paziente. Ne scaturisce un sobrio trattato, dal quale si deduce che in effetti M non può essere guarito perché “la cosa brutta” che si è impossessata di lui non esiste: egli stesso è la malattia.

  • Il fiore appassito
    Prende le mosse dalla storia incompiuta “Una rosa sul parabrezza” vista dal punto di vista del fiore, da quando viene colto in una notte estiva fino al suo destino finale.
    L'attesa trepidante sul parabrezza, l'emozione del calore delle mani che lo prendono e quel viso bellissimo che lo guarda, il viaggio insieme a lei, i tentativi di convincerla ad accettare il dono, la fatica di apparire più bianco e più profumato per conquistarla, la disperazione di ritrovarsi abbandonato sull'asfalto, destinato ad appassire senza aver compiuto la missione per cui era stato colto.

  • La fontana delle lacrime
    Una serie di racconti ambientati nella piazza sulla quale sia affaccia il bar “Paradiso” che ruotano attorno al nostro personaggio M seduto su una panchina di fronte alla fontana.
    A volte da solo perso in soliloqui senza capo né coda, altre volte in compagnia di persone reali o apparizioni immaginarie con le quali intrattiene conversazioni tutte incardinate sul fantasma del quale si è follemente innamorato e che si muove appena visibile dietro le vetrine illuminate del bar.

Il periodo della speranza:

  • Batti le mani

  • La freccia è scoccata

  • Il bello deve ancora venire

  • La donna che sapeva di buono

Il periodo del risveglio, ovvero come lo schiaffo della realtà lo risveglierà dalla speranza mal riposta:

  • Oscillazioni immobili

  • La notte gira nuda, se lo può permettere

  • Nove, dieci ... undici: quando le dita non bastano più

  • La mosca umana
    Interessante è la conclusione del racconto: “(...) la mia fantasia aveva inventato il mondo così com'è davvero.”
    E' l'amara considerazione che tutto quanto di negativo LMU (La Mosca Umana) si era inventato aveva poi trovato una sorprendente realizzazione, con l'aggravante che il fato ci aveva aggiunto ingredienti per rendere più amara e desolante la realtà.

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